La recensione
Un Celestino convincente e commovente
La mia guida del Touring Club Italiano per la Toscana, pubblicata dieci anni fa, dice che gli abitanti di San Miniato sono 3.030. Dubito che questa cifra sia aumentata nell'ultimo decennio. Ma di questi tremila, un piccolo manipolo — guidato da un energico sacerdote, Don Giancarlo Ruggini — ha coraggiosamente portato avanti con successo e dignità per più di vent'anni un festival teatrale, lottando contro le consuete difficoltà finanziarie e organizzative.
Le «feste del teatro» di San Miniato cominciarono nel 1947 con un dramma di Henry Ghéon; l'anno successivo Giorgio Strehler mise in scena la prima italiana di "Assassinio nella cattedrale". Da allora San Miniato ha visto ogni anno un nuovo dramma; molte di queste realizzazioni sono state «prime» mondiali (compresa, nel 1955, la versione teatrale de "II Potere e la Gloria" di Graham Greene). Scrittori stranieri come Bernanos, Eliot, McLeish, Fry si sono alternati a scrittori italiani, fra i quali Diego Fabbri e Ugo Betti. I testi sempre scelti fra quelli con problemi religiosi o morali, ma non da un angusto punto di vista parrocchiale. «Vogliamo testi che suscitino discussioni» mi ha detto Don Ruggini, durante l'intervallo della rappresentazione di quest'anno.
Si è trattato di una rappresentazione significativa che solleverà, appunto, discussioni, specialmente se sarà vista in seguito, quest'anno, a Roma e in altre città. È la versione teatrale dell'ultimo libro di Ignazio Silone, "L'avventura di un povero cristiano". (A questo punto posso forse dichiarare il mio interesse personale: ho fatto la traduzione inglese del libro). Il libro, comunque, è abbastanza differente dal dramma, sebbene Silone abbia concepito il suo racconto in termini drammatici e lo abbia scritto in forma dialogata. In ogni modo, cercherò di essere obiettivo.
L'umile cristiano del titolo di Silone è il monaco abruzzese del XIII secolo, Fra Pietro Angelerio, che divenne Papa Celestino V, abdicò dopo pochi mesi (è identificato di solito con l'uomo che fece «il gran rifiuto» della Divina Commedia, dove è oggetto del disprezzo di Dante), venne imprigionato dal suo successore Bonifacio VIII, morì in circostanze misteriose e pochi anni dopo fu fatto santo.
Santamente era vissuto, anche in questo mondo, e il dramma di Silone è il conflitto fra un idealista, un devoto eremita e la complessa, corrotta e politicamente infetta macchina della burocrazia della Chiesa. Molti lettori trovano paralleli fra Celestino V e Giovanni XXIII; e nel movimento dei fraticelli «spirituali» del XIII secolo, che protestano contro il lusso e gli interessi materiali della Chiesa, vi sono molte associazioni con l'opposizione alla Curia dei giorni nostri.
Ma il dramma di Silone, pur denso di idee, riguarda soprattutto esseri umani e il suo Celestino, contadino, eremita, pio epperò uomo di spirito, è una creazione affascinante. Quest'uomo che, fin dall'inizio, è sulla soglia della morte è simbolo di vita. È una parte estremamente difficile da recitare e, data l'attuale situazione degli attori in Italia, tanto più arduo trovare un interprete. Il regista di questa prima rappresentazione di San Miniato, Valerio Zurlini, ha avuto un'idea audace: invece di scegliere un attore vecchio, uno dei molti «grandi vecchi» del teatro italiano, cui far impersonare l'ottantenne Celestino, ha scelto un attore molto giovane, Giancarlo Giannini; non ha cercato poi di «invecchiarlo» e lo ha apparentemente incoraggiamo a recitare la parte «contro» le indicazioni dell'autore. Così, invece di un attempato, serafico monaco, Celestino è diventato un «arrabbiato», nervoso, talvolta confuso giovane protestatario. Per chi conosce bene il testo la cosa è sulle prime sconcertante. Ma, nonostante desideri vedere un giorno Celestino recitare com'è descritto, alla fine Giannini m'è parso convincente. Celestino, dopo tutto, era circondato da ribelli più giovani; era il loro simbolo. E Giannini ha dato vita al simbolo. Precedentemente, escluse alcune apparizioni televisive, avevo visto Giannini soltanto come Romeo nella versione italiana di Romeo e Giulietta di Zeffirelli (quella dell'Old Vic). Allora Giannini non mi fece un'impressione molto favorevole, ma qui è stato quasi sempre convincente e spesso commovente.
Sarebbe stato ancora più efficace se avesse avuto, opposto a lui, un buon Bonifacio. Anche Gianni Santuccio infatti è sembrato star recitando contro il testo, ma lui per nessuna visibile ragione. Il brillante, arrogante, spietato Benedetto Caetani — che come Bonifacio VIII sfidò re e principi — è divenuto, nell'interpretazione svogliata di Santuccio, un aristocratico affettato e stanco del mondo. Alcune delle parti minori erano in solide mani, in particolare la parte di Fra Angelo (Maurizio Gueli), di Fra Tommaso (Emilio Marchesini) e dell'aiutante militare del Re di Napoli (Carlo Valli).
Il dramma è stato dato all'aperto, nella splendida piazza dominata dal Duomo del XII secolo (dedicato a San Genesio, patrono di San Miniato e patrono degli attori). I frequenti riferimenti francescani alla natura prendevano un significato particolare quando degli uccelli svolazzavano nell'aria sopra il palco e le cicale, ingannate dalle luci artificiali, raschiavano come se fosse giorno.
Vi erano tre magnifici fondali di Alberto Burri, che ha creato anche i semplici azzeccati costumi.
Nonostante gli speciali problemi creati da un palcoscenico senza quinte laterali, la regia di Zurlini si è mossa a passo spedito. La XXIII festa di San Miniato è stata degna dei suoi illustri precedenti.
WILLIAM WEAVER The Financial Times, London, 18 Agosto 1969 Traduzione di M. Caciagli
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