Muore il signore nell'indifferenza
Pallida messa in scena di un testo giustamente dimenticato, Fiorenza ha esordito ieri sera sulla piazza del duomo per la regia di Aldo Trionfo. L'unico dramma scritto da Thomas Mann torna così sul palcoscenico dopo più di mezzo secolo di silenzio. Allestito nel 1907 a Monaco, e pochi anni dopo a Berlino e a Vienna, accese gli animi dei critici per l'interpretazione del personaggio del Savonarola. Per lungo tempo il prodotto drammaturgico del grande romanziere non interessò più nessuno.
Non a caso registi e uomini di teatro hanno ignorato per anni un testo che di teatrale ha ben poco: poiché dialogato non vuol dire teatrale, poiché dialogo può essere anche soltanto narrazione, e lo stesso Mann lo ha dimostrato nei suoi romanzi.
Fiorenza è scritto in forma drammatica, ma è un dramma statico, privo di slancio, di tensione. E' lo scontro di due uomini, di due punti di vista: l'umanesimo gaudente di Lorenzo il Magnifico, in una Firenze quattrocentesca capitale della cultura, e il cristianesimo d'assalto del Savonarola, domenicano iconoclasta nei confronti di una dottrina di stato. Tra loro, una donna-città (o una città-donna): Fiore-Fiorenza-Firenze è la giovane cortigiana amata da Lorenzo, fragile femminilità che si prostituisce al potente, ma anche simbolo di una città che soggiace agli amplessi del potere, dalle sue lusinghe completamente irretita.
Un grande sforzo registico sarebbe stato necessario per trasmettere al pubblico il dramma del dibattersi, del dilaniarsi di Firenze in questo aspro dilemma: che scegliere? l'ebbrezza presente di una vita spesa tra i diletti dell'amore e dell'arte, tra i piaceri dei sensi e dell'intelletto? o la fustigazione dei costumi in vista di una salvezza futura? In altre parole: Lorenzo o Girolamo?
Niente di tutto questo è nell'allestimento sanminiatese. Fiorenza rimane un testo da leggere, un dialogo, la sua trasposizione scenica non è 'dramma', manca di azione, di tensione, soprattutto manca di idee.
L'ultima giornata terrena di Lorenzo il Magnifico (Arnoldo Foà) si spende così, senza colpo ferire: il suo scontro con Fra Girolamo (Virginio Gazzolo) non turba, non scombussola, in poche parole lascia del tutto indifferenti. Intorno al signore orbitano i suoi pigri satelliti: Pico della Mirandola, il Poliziano, i figli Giovanni e Piero.
Il signore sta morendo, ma niente sembra sconvolgere la piatta tranquillità della corte: neppure quel monaco che, fuori, ha trascinato le folle e che ora, dall'alto del pulpito, sembra intento a convincere se stesso più che la turba dei fedeli. Tra costoro si aggira un'esile figura fluttuante che tanto ricorda una Primavera di botticelliana reminiscenza. Fiore (Sabrina Capucci), stereotipa personificazione di una città condannata alla lussuria, la Babele del Rinascimento, Sodoma, Gomorra svolge improbabili coreografie sotto gli occhi di un pubblico estasiato da quell'ondeggiare di morbide vesti sotto il filo di vento che percorre le piazza.
Si replica fino al 17 luglio.
FIORENZA FERRETTI, Il Tirreno 21 luglio 1986
|