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La recensione di Turi Vasile
 

La recensione

La Festa del Teatro nuova «risorsa» di  San Miniato

«Come strillavano le cicale giù per la china meridiana del colle di San Miniato al Tedesco nel luglio 1857!» (Carducci: Le risorse di S. Miniato al Tedesco).
Esattamente novanta anni dopo, le cicale strillavano ancora; e le udivamo passeggiando per la strada che serpeggia sul dorso dei colli e lungo la quale si estende, come lucertola al sole, la città di San Miniato. I cittadini, passando, guardano sempre alla famosa rocca di Federico II sbriciolata dalla guerra e tentennano il capo. Un vecchio samminiatese ci ha detto: «San Miniato senza la rocca è come un alpino senza la penna sul cappello; una città senza più il suo vanto».
Forse per consolarsi di questo dolore, i cittadini hanno scovato un'altra risorsa della propria città. Guardando il magnifico prato che si estende davanti alle secolari facciate del Duomo e del Palazzo Vescovile, hanno pensato di animare, sia pure per poche sere, il meraviglioso scenario della natura e dell'arte e di raccontare al popolo adunato una storia drammatica, piena d'incanto e di verità. Hanno pensato al Teatro.
E subito fu costituito un Istituto del Dramma Popolare, con un comitato composto di cittadini di tutte le tendenze e uniti da un solo amore, quello per la loro città e quello nuovo per il teatro.
«Il teatro — pensarono — si trascina morente sugli stanchi palcoscenici di Roma e di Milano. Facciamolo rivivere qui, con un impegno nuovo, lontano dagli schemi scenici e letterari usuali. Presentiamolo a un nuovo pubblico, con la speranza che un nuovo pubblico solleciti un nuovo teatro». Ragionamento poco peregrino, se volete. Eppure oggi quasi nessuno ricorda, in Italia, che il Teatro è stato e può essere un fatto civico — come nell'antica Grecia e nel Medio Evo — al quale tutti concorrono, pressappoco come — ancora oggi — accade per la festa del Patrono della propria città.
I samminiatesi pensarono infatti al proprio patrono, il quale non è San Miniato, ma San Genesio, l'attore-santo. Leggendo sulla nostra rivista il dramma di H. Ghéon La Maschera e la Grazia, in cui sono rappresentati appunto la conversione e il martirio di quel Santo, si infiammarono all'idea di tradurlo in spettacolo, raccolsero adesioni di critici e di giornalisti, costituirono una compagnia di attori, si diedero con entusiasmo a preparare la loro festa del teatro.
Fu così che nello scorso luglio ci siamo trovati a udire le carducciane cicale e ad assistere a uno spettacolo spontaneo, incantevole, insolitamente sincero.
Anche Jacques Maritain, l'illustre filosofo, Ambasciatore di Francia presso la Santa Sede, vecchio amico del compianto Ghéon, intervenne allo spettacolo. Sindaco, Consiglio Comunale e autorità lo ricevettero con sincera cordialità. Si scambiarono indirizzi; si fecero auguri per la fraternità tra i due popoli; il traduttore italiano dell'opera di Ghéon — Guido Guarda — tenne una interessante conferenza; Jacques Maritain fu accolto tra i membri onorari dell'antica Accademia degli Euteleti: insomma la giornata dello spettacolo fu, fin dal suo nascere, piena di euforia.
Poi, quando il sole tramontò e si fece buio, le facciate del Duomo e del Palazzo Vescovile si illuminarono di luci colorate e da una delle porte uscì Genesio a rivivere la sua vicenda terrena. Assistevano oltre all'Ambasciatore e ai giornalisti, contadini con le loro famiglie accorsi dalle campagne, e persone venute dalle varie città toscane.
La prima cosa che venne fatto di notare, non appena l'azione ebbe inizio e le varie parti della scena si illuminarono, fu l'equilibrio dell'innesto, della fusione tra gli elementi naturali e quelli artificiali. Tutto merito degli antichi architetti e del moderno scenografo (Dilvo Lotti). Teatro vero e proprio non c'era; il teatro era la piazza stessa. Palcoscenico vero e proprio non c'era: a sinistra il Duomo, a destra il Palazzo della Curia; nel mezzo soltanto una piattaforma, pochi elementi architettonici e decorativi; due colonne, qualche panneggio, un divano coperto di pelli, alcuni sgabelli. Dalla piattaforma si scendeva in piazza per una scaletta, e gli attori spesso agivano a pochi passi dagli spettatori. Nella grande scena del secondo tempo (il teatro romano di Nicomedia) la scalinata della Curia e tutta la piazzetta antistante il pubblico si riempivano di popolo, di guerrieri, di senatori... Ecco, in due parole, le possibilità che offre un teatro all'aperto.
Ma questo spettacolo, inoltre, presentava una particolarità tutta sua. Protagonista de La Maschera e la Grazia non è Genesio, l'attore che viene folgorato da quella stessa fede ch'egli un istante prima derideva; non è l'appassionata e fatua Poppea, combattuta tra l'amore per Genesio e le ricchezze di Diocleziano; non è la dolce Albina, la giovanissima allieva del famoso attore, la quale — sola — cela in cuore il presentimento della redenzione del suo maestro. Protagonista, dominatrice assoluta del dramma è la Grazia; è la Grazia che condusse a Genesio il fratello di lui Felice, cristiano, per intaccare il suo scetticismo e insegnargli (per la sua professione d'attore) come son fatti i cristiani, cosa fanno i cristiani, che cosa è la Fede Cristiana... di modo che Genesio il giorno dello spettacolo saprà interpretare a meraviglia la parte assegnatagli e strapperà l'applauso: unica sua meta. È la Grazia che a un certo momento fa trovare Genesio, mentre prova la sua parte, assorto a ripetere a se stesso: «Cristo è il mio Dio... Cristo è il mio Dio...». Quella stessa Grazia di cui i componenti del Comitato di lettura della Comédie Francaise non avevano concepita l'essenza; e per questo avevano rifiutato la rappresentazione del lavoro. Esso venne dato in Francia una ventina d'anni dopo che era stato scritto, e l'autore nemmeno potè assistervi. Ora è stato ripreso in Italia e agli attori ed agli organizzatori, alla fine dello spettacolo, Jacques Maritain rivolse commosso queste parole: «Se Ghéon fosse vivo, vi sarebbe molto riconoscente».
La presente edizione è stata opportunamente ridotta, dai tre atti del copione, a due tempi; e abilmente alleggerita in quei punti che denunciavano una eccessiva prolissità. L'esigenza dello spettacolo all'aperto lo richiedeva e tanto più in questo caso in cui — specialmente per la prima parte — il lavoro è piuttosto indicato per il teatro chiuso.
Genesio — interpretato da Ottavio Fanfani — attore alla corte di Diocleziano (Italo Parodi), riviveva i suoi personaggi in modo assai convincente ed efficace. Era tutto dedito alla sua arte, e poco si curava delle appassionate premure di cui era oggetto da parte della favorita dell'Imperatore, Poppea (Mia Galliani). Un giorno si incontrò con un personaggio nuovo, insolito; non un eroe mitico del repertorio classico, né un tipo della commedia: un romano, veramente vissuto, di nome Addano, morto per la fede cristiana. Sulle prime egli si accostò con avversione al personaggio, poiché nella vita odiava profondamente i cristiani i quali gli avevano tolto un fratello, poi, a poco a poco, provando e riprovando, sempre in lotta col suo personaggio, questi lo incuriosì, lo turbò, lo avvinse. Fino al punto che nel corso dello spettacolo al cospetto dell'Imperatore, Adriano e Genesio divennero uno solo, ed egli proclamò la sua nuova fede, davanti al popolo che da acclamante diventa inferocito. E il processo contro Adriano si mutò nel processo contro Genesio; e la morte del primo fu, nella vita, la morte del secondo. Le porte del Duomo si spalancarono. Genesio si avviò con passo sicuro al martirio e alla santificazione; un coro invisibile lo accompagnò. Poi le campane si sciolsero e suonarono a distesa.
Fu questo il suggestivo finale, che l'opera del regista — Alessandro Brissoni — rese tale con la sua sincera adesione al testo. Il pubblico, composto di intellettuali, contadini, operai, impiegati, si commosse tutto, semplicemente, ingenuamente, ed applaudì a lungo, con un calore mai udito alle «prime» di città.
Ora San Miniato ha trovato una nuova «risorsa» e un nuovo vanto. Ogni anno celebrerà la sua Festa del Teatro, nel nome di San Genesio, e ci auguriamo che il Teatro, tornando sulle belle piazze d'Italia, al di fuori di ogni organizzazione industriale e commerciale, assumendo uno squisito carattere comunale, diventi « risorsa » e vanto di tutto il nostro paese.

TURI VASILE, Filodrammatica, Roma, Settembre-Ottobre 1947




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