Il no cristiano a Hitler
« La nostra vita ha avuto uno scopo. E la vostra? » E' la domanda che Hans Scholl, uno de « La Rosa Bianca », pone a Roland Freisler, presidente del tribunale popolare del Reich, prima della condanna a morte per decapitazione che doveva concludere il simulacro di processo intentato, nel febbraio 1943, al gruppo dei giovani antinazisti di Monaco. Alla pedagogia e alla filosofia dell'odio, instillata in un'intera generazione e realizzata dal gruppo al potere nella Germania hitleriana, i « resistenti » della Rosa Bianca contrapponevano la loro opposizione ispirata dai valori eterni del cristianesimo, in difesa dei diritti fondamentali dell'uomo, affinchè questi potessero essere poi ridonati, integri e non ipotecati da un precostituito tipo di restaurazione.
Per questa fervida opposizione, i giovani universitari avevano tratto conforto dalla coraggiosa predicazione del vescovo di Munster, von Galen, che dal pulpito ammoniva: « Non possiamo combattere con le armi contro il nemico interno che ci tormenta e ci colpisce. Non ci rimane che un mezzo: resistere fino in fondo, con forza, con tenacia, con durezza. Diventiamo duri e stiamo saldi. In questo momento non siamo il martello, ma l'incudine ».
Opposizione non violenta, dunque, realizzata soprattutto con la compilazione e la distribuzione di scritti e manifesti nei quali si incitava il popolo tedesco alla resistenza passiva. Fermi nel loro atteggiamento, consci che le loro « piccole verità » — la definizione è di Hans Scholl — dovevano essere clamorosamente confermate a costo della vita per potersi efficacemente opporre alla clamorosa propaganda nazista, i giovani della Rosa Bianca non vollero di proposito sottrarsi né al processo né alla morte. V'erano nel gruppo dei cattolici, dei protestanti, un ortodosso, anche un agnostico (Christoph Probst) che chiese il Battesimo prima di salire al patibolo: è lecito intravedere, nel loro univoco agire, l'afflato di un ecumenismo fecondato infine dal comune spargimento di sangue.
Da questo fatto di cronaca che si avvia a essere pagina di storia, Dante Guardamagna ha tratto, su sollecitazione dell'Istituto del Dramma Popolare di San Miniato, un testo — « La Rosa Bianca », appunto — che si rappresenta, per la 31" « Festa del teatro », nella piazza del seminario della cittadina toscana. E va sottolineato che la scelta dell'argomento e l'iniziativa di farlo drammatizzare evidenziano la perfetta coerenza dell'Istituto sanminiatese nel proporre « un teatro impegnato sui problemi e sulle inquietudini spirituali del nostro tempo ».
L'elaborazione drammaturgica del Guardamagna — le cui fonti sono, oltre che gli atti del processo, anche i fogli e i volantini della Rosa Bianca, il volumetto diari-stico di Inge Scholl sorella di due condannati, le interviste che Aldo Falivena realizzò con i familiari delle vittime — è concretata in forma di processo, un processo fuori del tempo nel senso che, pur formandone il filo conduttore, consente di assumere la vicenda a soggetto e memoria. Scavarne, mediante l'evocazione di alcuni significativi momenti, le motivazioni profonde che indussero quei giovani, nati ed educati nel mito neopagano della violenza e della prevaricazione, a prendere coscienza di sé, meditare sul problema delle scelte, rifiutare quello che il Guicciardini chiamava il proprio « particulare », giungere a impegnarsi generosamente — in quei momenti di tragedia collettiva, allorché la « peste » nel senso artaudiano di epidemia morale aveva trovato il consenso spaventato dei benpensanti — onde « salvare l'anima del mondo futuro ».
Freisler, presidente del tribunale, è un grottesco istrione che recita delirando il ruolo di mattatore, pretendendo su di se tutte le luci della ribalta: inquisisce, accusa, insolentisce la « piccola congiura dei bigotti » in nome e per conto delle ideologie dei suoi padroni. Gli si oppone, all'apparenza candida e indifesa ma in realtà fermissima nel rifiuto, la voce dei giovani, i quali « a tutte le violenze resistono ostinati », ripetendo a se stessi e agli altri: « o cristiani, o vigliacchi; meritiamo di essere dispersi come polvere al vento, se non prendiamo posizione... ».
Ve anche, e non a caso, un confronto dialettico con il vecchio professore Huber, il quale, pur condividendo appieno le motivazioni che spingono i giovani, ne mette in dubbio la contestazione non violenta, affermando che non può farsi una rivoluzione senza rabbia. « Nessuno dovrebbe mai più fare violenza su nessuno, per nessuna ragione; altrimenti saremo tutti contagiati », gli viene risposto; ed è un ammonimento che vale anche per tutti noi, oggi che sotto i nostri occhi sfilano atti di violenza altrettanto assurda.
Il sigillo estetico del dramma, più che rientrare nella ristretta formula del teatro-documento, appare imprimere e esprimere un efficace momento di constatazione e di meditazione. Evitando di frantumarsi naturalmente nella rappresentazione dei fatti, il copione suggerisce l'itinerario della coscienza retta e coraggiosa dell'uomo con una drammaticità nuda, asciutta e scandita, con momenti di austera commozione. Né lo incrinano moti di melodramma, perché la testimonianza ch'essa rende è il coagulo delle testimonianze di coloro che affrontarono senza fanatismo la sfida per il riscatto felice dei valori umani e cristiani.
Lo spettacolo costruito da Giulio Bosetti su un testo cosi pregnante ha il merito, per noi fondamentale, di non isolare mai o quasi mai la parola dal momento collettivo, di non enucleare un personaggio a scapito della collettività dei personaggi, di mantenere in luce non tanto il cosiddetto « clima », quanto l'impegno civile e morale del discorso. Lo spettatore è veramente chiamato a una partecipazione, però di consapevolezza e di responsabilità, evitando immagini dispersive pur attraverso i molti elementi sottopostigli. E la realizzazione, così, riesce densa e significante, senza lo stacco di arrovellati « flash-back », e si compone unitariamente trovando un'immediato eco nel cuore e nella coscienza.
Alcuni momenti scenici sono di bella efficacia: la contestazione studentesca alle proterve affermazioni del « Gauleiter »; la testimonianza umile e coraggiosa resa dal professor Huber al tribunale; la scena finale realizzata con quel groviglio di uomini fra sbarre sempre più strette e oppressive, su cui si riversa infine il candido volo dei manifestini — i manifestini della « Rosa Bianca » — in un simbolico riemergere di libere voci.
Fra gli intrepreti, sono da segnalare Tino Schirinzi, che ha accomunato i suoi personaggi (Difensore, Padre degli Scholl, professor Huber) in una umanità dolente e però ferma nell'opporsi all'ingiustizia; Marina Bonfigli (la « donna »), Franco Mezzera (il presidente Freisler) e lo stesso Bosetti nelle brevi ma intense parti del vescovo von Galen e del Sacerdote. Qualche incertezza nei giovani, fra i quali si sono messi in evidenza Mauro Goldsand e Alberto Mancioppi.
Un palco nudo, « assediato » ai quattro angoli da torrette dei « lager » presidiate da uomini delle SS che facevano sciabolare le luci, ha fatto da luogo scenico essenziale e rigoroso.
Partecipe commosso, plaudente il pubblico che gremiva le gradinate costruite nella piazza del seminario. L'autore, presente alla rappresentazione, è stato molto festeggiato.
Arnaldo Mariotti Avvenire, Milano, 27 Luglio 1977
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