L' angoscia di Wojtyla tra rivolta e Fede
Il primo novembre 1946 Karol Wojtyla viene ordinato sacerdote. Giobbe, il dramma che Wojtyla scrisse non ancora ventenne nella Polonia occupata dai nazisti, « durante la Quaresima », ci introduce nel mistero della sua vocazione religiosa. L'abbiamo visto giovedì sera, in anteprima, nell'antica piazza del Seminario di San Miniato, in un'edizione en plein air curata per la trentanovesima rassegna dell'Istituto del Dramma Popolare dall'attrice e regista Aleksandra Kurczab (anche traduttrice, insieme a Margherita Guidacoi), con la supervisione — decisiva, per il taglio cinematografico delle soluzioni sceniche — di Krzysztof Zanussi, l'autore di quel film su Papa Wojtyla, Da un Paese lontano, che quattro anni fa fece tanto
discutere. Ugo Paliai è stato Giobbe e Paola Gassman Eliu, il profeta. Autore delle musiche, oscillanti fra motivi popolari e arie liturgiche, Tony Cucchi'ara è apparso anche nel ruolo di un cantastorie, sostitutivo del prologo. Irripetibile nella versione attuale, proprio per gli interventi « in cinemascope » di Zanussi, lo spettacolo sarà replicato sei volte, fino al primo agosto. Alla prima è intervenuto il ministro Lagorio ed è atteso De Mita. Serpeggiava una voce: che l'elicottero del Papa potrebbe anche atterrare sulla piazza del Seminario: ipotesi che il buon senso e la discrezione fanno però ritenere poco probabile. Ho saputo comunque che il progetto della rappresentazione è finito sul tavolo del Papa, e che il suo silenzio è
stato interpretato come un consenso. Bisogna capire: il Santo Padre ha il dovere di considerare come « un altro » quel ragazzo di vent'anni che nel '40, mentre il piede straniero era sulla Polonia, mentre erano ancora fresche le tombe del padre e della madre, angosciato tra la rivolta e l'obbedienza al Dio del suo catechismo infantile, s'interrogava sul destino di Giobbe.
Non « il dramma del Papa », certo. Ma il dramma di una natura religiosa che, un occhio alla sapienza della Bibbia e un altro alla miseria della Polonia devastata, attraverso la metafora del giusto perseguitato, intrecciando smarrimento individuale e tormento collettivo, si interroga sul mistero del male.
Anche un laico non può non essere toccato dall'intensità di questa testimonianza di un'anima ardente. Lo spettacolo propostoci garantisce sostanzialmente (dico sostanzialmente perché avrei voluto un maggior rispetto per l'integrità della paróla nella seconda parte, che ha subito pesanti tagli), la restituzione di un fervore religioso che preme sotto la forma letteraria neoromantica del giovanissimo autore, preso fra il lirismo filosofia) di un Milosz o di un Norwid e il teocentrismo biblico, sua ancora di salvezza.
Dietro la porta della casa di Giobbe, l'uomo prospero e giusto, è vicina la festa per gli ospiti; e sulla campagna c'è l'allegria solare della mietitura. E' l'ora scelta per la collera divina: uno dopo l'altro pastori e montanari annunciano le razzie dei Sabei e dei Caldei, le ecatombi di pecore e cammelli, gli incendi delle messi, le folgori che inceneriscono i figli innocenti. Si dispiegano efficacissimi — e il pubblico, sulle tribune di fronte alla strada, non resiste alla tentazione profana di applaudire — gli effetti del « cinemascope » di Zanussi.
Dopo un fischio nella notte che lacera i secoli, uligani in motocicletta irrompono nella strada della casa di Giobbe, saccheggiano, violentano ed uccidono; vedi in quelle ombre della distruzione le SS del ghetto di Varsavia, i terroristi degli anni di piombo, i poliziotti mandati contro Solidarnosc. Quel fantasma scheletrito, uscito da un lager, quella raffica che s'abbatte su un corpo di cristiano in una Renault rossa, e ci riporta in flashes l'assassinio di Moro; quel corpo di sacerdote percosso fino all'agonia e trascinato via su un carretto che ricorda monsignor Romero o Popieluszko Zanussi riesce ad incarnare quel grido d'anima lanciato 45 anni fa da un giovane studente di Cracovia nel viso di un quotidiano, aggiornato inferno della violenza. E dispone così gli spettatori — che la mobilità « cinematografica » della messinscena costringe, paradossalmente, ad una « partecipazione liturgica » — a ricevere il discorso finale della sottomissione non come una smorta predica.
Insomma: se il giovane poeta di Cracovia non fosse diventato Papa, la riesumazione di Giobbe sarebbe stata giustificata? La risposta, visti i risultati complessivi, è per mio conto « si ».
Ugo Ronfani Il Giorno, Milano, 27 Luglio 1985
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